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LA CROCE DI SPINE

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GLI ANNI DEL TESTIMONIUM FLAVIANUM, DI CRISTO E DI GIOVANNI IL NAZIREO

 

Ritorniamo ancora una volta sul Testimonium Flavianum al fine di proporre un’ulteriore riflessione in merito all’assurdità cronologica insita nella sua maldestra collocazione.

L’argomento, come vedremo, ci consentirà di introdurre altre valutazioni relative sempre agli anni di Pilato, tutte di ordine cronologico e di importanza fondamentale.

Una cosa è certa: il Testimonium è un’inesauribile miniera di sorprese!

Infatti, un semplice sguardo ai paragrafi di Antichità Giudaiche che, dal punto di vista espositivo e cronologico, precedono e seguono il Testimonium, consentendoci di spaziare oltre le 111 misere parole (43) nelle quali viene bruciata la vicenda “strabiliante” di Gesù che “era il Cristo”, può regalarci, tanto per usare il linguaggio dello stesso Testimonium, “altre cose meravigliose”…, non tanto sul “Cristo” quanto sull’incauto falsario che decise di far recitare nel posto sbagliato il “Gloria al Padre” a Giuseppe Flavio…!

La vicenda di Gesù Cristo segue al racconto del tumulto per la sottrazione del denaro pubblico dal tempio, al quale è collegata con le parole “allo stesso tempo circa”.

Una volta cessata la folgorazione mistica che porta il sacerdote ebreo Giuseppe ad osannare Gesù come il Cristo, questi, recuperata la propria fede insieme al lume della ragione, passa all’argomento successivo e, iniziando con le parole “nello stesso periodo”, introduce la narrazione dei fatti scandalosi connessi al tempio di Iside a Roma e della fiction amorosa nella quale fu coinvolta la signora Paolina .

Ora, se per il tumulto del denaro del tempio non abbiamo riferimenti cronologicamente certi, per la storiella della signora Paolina, avvenuta “contemporaneamente” alla vicenda del tempio di Iside, siamo più fortunati.

Sappiamo, infatti, che entrambi gli episodi provocarono le ire di Tiberio, il quale fece redigere un elenco di quattromila giudei della comunità romana, successivamente spediti in Sardegna senza “biglietto di ritorno” a combattere il brigantaggio (44).

Grazie a Tacito sappiamo anche che ciò avvenne mentre correva l’anno di grazia 19 d.c. (45).

Non è straordinario scoprire che Gesù Cristo è vissuto, morto e risorto “nello stesso periodo” in cui avvenne tutto questo e cioè verso il 19 d.c.?

Non bastava al distratto copista il pasticcio combinato con la data di morte di Giovanni Battista fissata al 36 d.c. (46)?

Prendendo a riferimento la data di nascita di Gesù riferita da Luca (6 d.c.) e mettendola in relazione con la sua morte avvenuta “nello stesso periodo” della cacciata dei giudei da Roma (19 d.c.), non possiamo, infatti, che giungere ad una conclusione strabiliante: Gesù Cristo fu crocifisso alla tenera età di 13 anni!

Non è tutto: usare la frase “nello stesso tempo” a proposito di fatti accaduti nel 19 d.c. e riferendosi al Testimonium ed a Gesù, significa prendere una cantonata madornale anche rispetto a Pilato, visto che si sta parlando degli anni del suo incarico che, com’è noto, si svolse dal 26 al 36 d.c. e che nel 19 d.c. era ancora in carica Valerio Grato!

Il sospetto (molto forte) è che con i paragrafi delle Antichità Giudaiche qualcuno, dopo aver corretto, integrato o cassato intere parti, abbia sezionato le rimanenti cercando di spostare più avanti tutti gli eventi collegati alle agitazioni messianiche.

Tuttavia, come succede nel gioco del quindici, dietro alle tessere spostate in una certa direzione si crea un vuoto da riempire con altre più arretrate, che possono a quel punto avanzare.

Nel caso in esame, considerando, oltre allo spostamento di alcune parti, lo stralcio più che sicuro di intere altre dove si narrava della vera vicenda di Giovanni il Nazireo, più che un vuoto si creò una voragine, nella quale vennero a cadere intere narrazioni originariamente riferite agli anni della precedente prefettura.

D’altra parte, creando un “vuoto di storia” negli anni che, come vedremo, furono i più critici del messianismo insurrezionale, si ottenne il necessario “silenzio in sala” per la miglior riuscita dell’esibizione corale dei quattro Evangelisti sulle note estatiche della “buona novella”.

Una riflessione, tuttavia, può essere proposta a chi non sia rimasto vittima dell’estasi: perchè la discreta tranquillità del decennio di Pilato, segnato nelle pagine di Giuseppe da un inspiegabile assenza di eventi salienti, non trova riscontro nelle parole tutt’altro che tranquillizzanti di Filone d’Alessandria?

 

“Un tiranno corrotto, avido e insensibile alle ragioni della giustizia. Orgoglio, prepotenza e insolenza erano la sua regola. Il paese sotto di lui fu lasciato al saccheggio di bande ribelli che incendiavano le case dei ricchi e la gente veniva uccisa senza il rispetto di alcuna legge” (47).

 

In assenza di eventi socialmente rilevanti, quali occasioni avrebbe avuto Pilato per palesare il carattere dispotico e inumano attestato da Filone (e dallo stesso Giuseppe Flavio)?

Come si concilierebbe poi tale carattere con l’atteggiamento mite e remissivo che sembra contraddistinguerlo nell’enigmatico processo pubblico contro Gesù?

 

Estendendo ora l’angolo di ripresa, cerchiamo di inquadrare l’intero periodo che va dal censimento di Quirino (6 d.c.) alla destituzione di Pilato (36 d.c.) come in una fotografia panoramica da scattare con l’obiettivo grandangolare.

Ad una lettura sommaria e superficiale, il trentennio in questione non presenta particolari segnali d’allarme sociale, politico e religioso, mentre i fermenti insurrezionali che preludono alla grande disfatta del 70 d.c. sembrano esplodere nei decenni successivi. Sono molti, tuttavia, i conti che non tornano…

 

Il censimento del 6 d.c., seguito allo smembramento del regno di Archealo, figlio di Erode il Grande, e al “declassamento” della Giudea a provincia assoggettata al Legato di Siria, fu visto dal popolo come una provocatoria minaccia al proprio destino di sovrano del mondo per volere di Dio.

La ribellione di Giuda il Galileo, padre del vero “Gesù”, fu animata proprio dalla contrarietà ideologica e di principio a quella che apparve come un’intollerabile intromissione profana e ostile su persone e beni appartenenti al popolo eletto da Dio.

L’operazione, infatti, ebbe un fine ben preciso che andò oltre la semplice ricognizione demografica: verificare l’esistenza, la dimensione e la produzione degli apprezzamenti agricoli per stabilire il giusto peso impositivo che, in relazione al presunto reddito prodotto, i loro proprietari fossero stati in grado di sopportare.

L’ingente pressione fiscale conseguente fece scivolare nella miseria un esercito di piccoli proprietari che, a parte la contrarietà religiosa ed ideologica di fronte all’asservimento allo straniero nemico di Dio, trovandosi sull’orlo del lastrico, dovettero avere motivi ben più spiccioli ma ugualmente importanti per supportare chiunque avesse loro promesso la liberazione dall’odioso giogo romano.

La guerra di liberazione e la disobbedienza fiscale dovettero essere per lungo tempo le parole d’ordine sulle quali crebbe il messianismo, tanto è vero che perfino nei Vangeli l’irrequieto Giovanni figlio di Giuda ogni tanto si palesa nei panni di Gesù di Nazareth e dice la sua: “Abbiamo trovato quest'uomo che sovvertiva la nostra nazione, istigava a non pagare i tributi a Cesare e diceva di essere lui il Cristo re.” (48).

Come si può pensare che l’insofferenza esplosa e soffocata nella rivolta del censimento, con tutti i problemi che lasciò irrisolti, possa aver ceduto il passo al tranquillo quadretto che emerge dalla lettura dei Vangeli?

Cosa successe realmente negli anni oscurati dalla storia per lasciare spazio all’assolo degli Evangelisti?

Il salasso fiscale gravò ininterrottamente sulle spalle del popolo giudaico per un trentennio e cessò soltanto grazie ad un provvedimento eccezionale di detassazione dei prodotti agricoli adottato insieme ad altri (non meno eccezionali) dal legato di Siria Vitellio nell’anno 36 d.c., durante la sua visita a Gerusalemme.

Di solito le misure eccezionali e impopolari non venivano prese dalle autorità romane per mero sadismo, soprattutto non venivano mai abrogate per magnanimità, spirito caritatevole o semplicemente umana comprensione...

Dovette accadere qualcosa. Il Legato di Siria aveva il potere di intervenire direttamente negli affari della provincia Giudea ma ciò, ovviamente, avveniva soltanto in casi estremi, quando il governo locale non si era dimostrato all’altezza dei propri compiti.

Un atto dispositivo intrapreso direttamente da tale autorità non era cosa di tutti i giorni ed era normale che fosse accompagnato (così come fu) dalla rimozione di funzionari giudicati inetti, di prefetti e, se era necessario, anche di regnanti.

Nel 6 d.c. toccò all’erodiano Archelao, deposto ed esiliato perché giudicato non in grado di gestire i propri territori.

In quel caso fu compito di Quirino, Legato di Siria allora in carica, presenziare all’imponente censimento ed avviare l’accennata insopportabile tassazione.

Nei trentanni successivi, nessun Legato si fece più vedere tra le mura gerosolimitane a prendere provvedimenti eccezionali o a rimuovere funzionari inetti dalle cariche pubbliche.

Se nel 36 d.c. incontriamo Vitellio che, come il suo predecessore, non era certo venuto a Gerusalemme per far cambiare aria al cavallo, qualcosa di grave doveva essere successo, anche perché in questo caso di “teste saltate” se ne contarono due: quella di Pilato e quella del Sommo Sacerdote Caifa (finalmente), ormai mummificato in un incarico inspiegabilmente protrattosi per quasi un ventennio (49).

Vitellio, tuttavia, non si limitò ad abrogare le tasse né a destituire le locali autorità, ma diede anche disposizioni affinché la sacra veste rossa di dignità regale con i suoi paramenti tra i quali il sacro diadema, in custodia presso i romani dalla morte di Erode il Grande (4 a.c.), fosse restituita in via permanente al popolo giudaico e, come un tempo, fosse custodita nel tempio.

La veste, simbolo della sovranità politica e religiosa di Israele, era appartenuta alla famiglia regale Asmonea dalla quale Ezechia, suo figlio Giuda il Galileo e i suoi nipoti (gli apostoli), tra i quali Giovanni (Gesù), vantavano diritto di discendenza.

Si può immaginare l’umiliazione e il senso di frustrazione che il popolo ebraico dovette avvertire per i quarantanni durante i quali il sacro reperto rimase nelle impure mani pagane (50).

La veste, restituita ai sacerdoti del tempio, rimase in custodia degli stessi fino alla morte di Erode Agrippa nel 44 d.c., quando, essendo il figlio del defunto sovrano troppo giovane per regnare, venne inviato in Giudea Cuspio Fado con l’incarico di procuratore (51). Egli, con l’appoggio dell’allora Legato di Siria Longino, venuto pure a Gerusalemme con una forza notevole per timore che gli ordini di Fado avrebbero spinto il popolo giudaico a una rivolta”(52), pretese che la sacra veste fosse riconsegnata in mano romana ma, su richiesta del popolo, acconsentì che fosse inviata un’ambasceria a Cesare per chiedere che la stessa fosse di nuovo e definitivamente riconsegnata ai giudei.

Claudio, nel frattempo divenuto imperatore, accolse la richiesta rendendo definitivo il provvedimento in passato adottato da Vitellio.

Non abbiamo raccontato tutto questo soltanto per rimarcare la straordinaria importanza riconosciuta al sacro indumento da parte del popolo giudaico, ma anche, e soprattutto, per porre l’accento su una strana affermazione di Giuseppe Flavio che ha richiamato la nostra attenzione proprio perché priva (o privata) di ulteriori spiegazioni.

Dopo un lungo e dettagliato resoconto sulle sorti della veste, a partire da Erode il Grande e fino alla decisione di Vitellio, Giuseppe Flavio conclude dicendo: “… questa digressione è stata occasionata dalla triste esperienza che si ebbe dopo”(53).

Quale fu la “triste esperienza” che si ebbe “dopo”? Perché fu causa della “digressione”? Perchè, in tutto il resto dell’opera non v’è traccia di circostanze e dettagli relativi a tale “triste esperienza”?

Se la veste era il simbolo della sovranità politica e sacerdotale, si può immaginare quanto il suo possesso rientrasse tra gli obiettivi dei componenti della famiglia di Giuda il Galileo, ritenutisi discendenti dei sovrani Asmonei e legittimi titolari dell’ideale Regno d’Israele.

Infatti, nei giorni più terribili della guerra, incontriamo Menahem (ultimo figlio di Giuda) nel tempio dove “vi si era infatti recato a pregare in gran pompa, ornato della veste regia e avendo i suoi più fanatici seguaci come guardia del corpo.” (54).

Con ogni probabilità il nostro Giovanni, primo dei figli di Giuda, molti anni prima del suo ultimo fratello dovette fare la stessa cosa e nei giorni del “colpo di stato”, probabilmente riuscì a sottrarre la veste ai suoi custodi e ad indossarla!

Ecco la “triste esperienza” causa della “digressione”!

D’altra parte soltanto un re, con tanto di paramenti e seguito armato, avrebbe potuto sfidare la sacralità del tempio, sferrando un attacco e seminando il panico tra coloro che, con il beneplacito dell’ordine sacerdotale, vi svolgevano attività commerciali (cacciata dei mercanti dal tempio)!

Questa “triste esperienza” della veste non fu la sola per la quale Vitellio, con ampio spiegamento di forze militari al seguito, si recò a Gerusalemme.

Con l’occasione, come già accennato, fu fatta “piazza pulita” di funzionari giudicati inetti ed immaginiamo che si fossero dimostrati tali in quanto incapaci di fronteggiare l’attacco alle istituzioni condotto da Giovanni (55).

L’altro provvedimento, quello della detassazione dei prodotti agricoli, fu intrapreso per dimostrare la benevolenza di Roma nei confronti del popolo, affinché lo stesso non fosse più costretto per fame ad abbracciare la causa delle rivolte messianiche.

Questa è l’unica spiegazione che è possibile trovare nell’inverosimile silenzio di Giuseppe Flavio di fronte ad un provvedimento così eccezionale da non avere precedenti.

Il calendario segna a questo punto l’anno 36 d.c. e, al di là della cronologia cristiana che colloca intorno al 30 d.c. la crocifissione di Gesù, tutto lascia supporre che il tragico epilogo dell’avventura messianica di Giovanni il Galileo, si sia consumato proprio in quell’anno.

Confermano questa nostra supposizione gli sforzi (sui quali faremo luce) sostenuti congiuntamente dai falsari delle opere di Giuseppe Flavio e dagli estensori del Nuovo Testamento (evidentemente gli stessi o i loro successori), per allontanare da tale data l’insieme di condizioni che resero possibile il tentativo di Giovanni, affinché nessuno fosse indotto a riconoscere in esse, indagando il periodo nel quale effettivamente si manifestarono, il vero antefatto della vicenda cristiana che, per altro verso, I Vangeli e il Testimonium Flavianum si erano preoccupati di anticipare (56).