Yeshua |
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GESÙ – BARABBA
In alcune antiche versioni del Vangelo di Matteo, sotto ai versi 16 e 17 del cap. 27, appare una nota nella quale viene affiancato al nome di Gesù quello di Barabba, non tanto per distinguere due diverse individualità, quanto per identificarne meglio una di esse, ravvisato che entrambe portavano lo stesso nome, mediante l’aggiunta dell’appellativo di Barabba! La nota non lascia adito a dubbi: “Ihsoun Barabban", nelle versioni in latino “Iesoun Barabba", e cioè... “Gesù Barabba”, non è altro che una possibile variante di "leghomenon Barabba" e cioè "detto Barabba" (28), che ha valenza di un soprannome, mentre l’espressione "di nome Barabba", che appare ad esempio nel "Nuovo Testamento, Nuova Revisione 1992 sul Testo Greco, della Società Biblica di Ginevra", ne ha ben altra (29). Riguardo, poi, alla fama di "Barabba", la tradizione cristiana ci insegna fosse quella di un brigante (ribelle, assassino), tuttavia in antiche fonti, come nel Novum Testamentum Graece et Latine, in una nota ai suddetti versi, viene detto che tale personaggio era stato arrestato in occasione di una sommossa scoppiata in città, ma non che lo stesso si macchiò di reato alcuno in tale circostanza (30). Anche le versioni meno remote dei Vangeli non riferiscono nulla in merito alle colpe personali di Barabba: Marco (31) parla di "Un tale chiamato Barabba" che si trovava in carcere, insieme ai ribelli che nel tumulto avevano commesso un omicidio"; Matteo parla semplicemente di "un noto carcerato" (32); Giovanni, infine, ci dice semplicemente che era un "lestes" (33), parola che può essere tradotta con "bandito" o "ladro" ma che nel linguaggio comune era usata dai romani per indicare coloro che praticavano la “delinquenza politica” ossia gli zeloti, tristemente noti per il loro programma di azione insurrezionale e per i metodi di lotta seguiti. Dunque, negli antichi testi (come in quello citato sopra), la sommossa, l'omicidio o, più in generale, i disordini, non costituiscono altro che l'occasione (che può aver visto protagoniste altre persone tra le quali lo stesso messia Giovanni) nella quale fu arrestato insieme a Gesù anche… Gesù Barabba. Tuttavia la tradizione paolina, antimessianica, antigiudaica e totalmente protesa ad ingraziare i romani, assegnò a Barabba una connotazione individuale marcatamente criminale, al precipuo scopo di avvalersi di un giusto contrappeso morale alla santità del Cristo, il quale possa poi a propria volta accentare la folle cecità correa del popolo ebraico (e la saggia estraneità di Pilato e dei romani alla decisione presa).
L’intero episodio, che nella vicenda messianica sembra essere di assoluta centralità, ci viene raccontato in forma banalizzata ed inverosimile per celare, così come spesso i Vangeli fanno, un diverso quadro dei fatti, di difficile decifrazione. Infatti, le osservazioni che possono essere formulate non si limitano al nome di Barabba ma investono molti altri aspetti che nel racconto neotestamentario appaiono deboli dal punto di vista argomentativo e fragili da quello della logica. Se Barabba era davvero un ladro o un assassino, che motivo aveva il popolo per reclamarne la liberazione preferendola a quella di un povero e pacifico innocente? Se invece era un rivoluzionario che godeva di una certa popolarità, non sarebbe certo venuto in mente a Pilato di rischiarne la liberazione (sottoponendo il caso al verdetto popolare) per poi trovarsi costretto a liberare un terrorista ed a giustiziare un visionario e innocuo mistico, conciliante con il potere di Roma e disposto a "dare a Cesare quel che è di Cesare". Innanzitutto durante la dominazione romana in Palestina, non è mai esistita alcuna usanza di liberare un prigioniero per Pasqua, altrimenti lo avremmo certamente saputo dai racconti degli storici del tempo. Se, inoltre, il Sinedrio si fosse davvero riunito per giudicare Gesù in piena notte e durante le festività pasquali (cosa del tutto inverosimile, considerando il rigore degli usi del tempo), avrebbe avuto, a quel punto, piena autorità per condannare a morte Gesù (non per crocifissione ma per lapidazione), mentre invece sappiamo dai Vangeli che si dichiarò incompetente e si rivolse al giudizio di Pilato, dipinto dai Vangeli come un "pio imbecille" in balia del popolo. Un “praefectus” così incerto e arrendevole “sarebbe stato spazzato via da zeloti e sicari in un tempo brevissimo”(34), e non sarebbe stato certamente descritto da Giuseppe Flavio e Filone Alessandrino, con aggettivazioni ben diverse volte ad evidenziarne la spietatezza, l’inflessibilità e l’indisponibilità nei confronti del popolo al quale si impose senza mai riconoscere alcuna concessione. Un approccio storicamente credibile e coerente con gli avvenimenti accaduti in quei giorni, considerando anche il fatto che le feste pasquali, come riferito dagli storici, erano sempre occasione di tumulti (35), deve per forza condurre all’individuazione un nesso logico tra più eventi quali l’unzione messianica, l’ingresso in Gerusalemme, la cacciata dei mercanti dal tempio, l’arresto e il processo. In tale ottica, dietro all’oscuro confronto tra Gesù e Pilato si nascondono in realtà decisioni politiche molto serie, assunte in prima persona da Pilato in qualità di “praefectus”, che nel pieno delle proprie funzioni di rappresentante dell’imperatore e tutore dell’ordine pubblico, disponeva in via esclusiva e inalienabile di quello “ius gladii” che gli consentiva di passare per le armi non certo chi si fosse macchiato di colpe religiose quali l’attività miracolistica o la predicazione apostatica, ma chi avesse posto in essere azioni tese a minacciare il dominio e la sovranità di Roma sul territorio della provincia, tentando di rovesciarne l’ordine politico e militare. Il processo popolare non è che uno dei tanti episodi riferiti in maniera volutamente superficiale, frammentaria e sconnessa, per nascondere la realtà di un vero e proprio “colpo di mano”, un tentativo di insurrezione con il coinvolgimento (e forse il mancato sostegno finale) del popolo, pericolosamente posto in essere dal movimento messianico, capeggiato da chi si considerava ed era considerato quale legittimo erede dinastico al trono di Israele e da Israele atteso in simmetria politico-escatologica con la corrispondente figura messianico-sacerdotale.
Ritorniamo all'espressione “Ihsoun Barabban " per cercare di ricostruire ciò che verosimilmente accadde nel passaggio dalla citata antica versione di Matteo alle successive edizioni dei canoni. Nel tempo il nome di Iesoun venne cancellato dai racconti neotestamentari, mentre all’appellativo “Barabba” venne data la valenza di un nome proprio diverso da Gesù, in modo da evitare disorientanti sovrapposizioni tra i due individui posti da Pilato di fronte al popolo che, com'è noto, avrebbe scelto la liberazione di Barabba a scapito di quella di Gesù. Ma, ritornando all’antica versione di Matteo, se “Iesoun” era il nome e “Barabba” l’appellativo della medesima persona, che senso ebbe originariamente la tragica alternativa formulata da Pilato? Che razza di domanda avrebbe posto Pilato al popolo dicendo: “Volete che io vi liberi Gesù o... Gesù”? Quale nome poi avrebbe urlato il popolo per comunicare univocamente la propria preferenza? Una volta consumata l’improbabile farsa, cosa sarebbe successo? Gesù sarebbe stato rilasciato mentre Gesù sarebbe stato destinato al patibolo! Tra gli "sdoppiamenti" dei racconti neotestamentari, questo più di altri sembra celare la chiave per comprendere il personaggio di Gesù (o quello delle individualità storiche sulle quali esso è stato costruito) e il senso della sua stessa resurrezione che, autenticata in chiave letteralista nella secolare e reiterata alterazione delle scritture neotestamentarie, può invece essere interpretata come sopravvivenza di un “Gesù” rispetto all’altro. Nella curiosa contrapposizione tra le due identità, considerando il primo (Gesù) come il “Cristo” nel senso di “Unto” o messia davidico, con chi può essere identificato il secondo (Gesù Barabba)? L’appellativo di "Barabba" cela ulteriori inquietanti significati. Il termine deriva dall’aramaico “Bar Abbà” e risponde all’uso frequente di identificare una persona indicandone la paternità: “bar” sta per figlio, al quale segue il nome del padre, in questo caso, “Abbà” che tradotto significa “padre”. “Bar Abbà” significa, dunque, “figlio del padre”, patronimico vuoto e privo di reali elementi identificativi a meno che non venga riferito al “Padre” in senso biblico cioè a Dio, in perfetta coerenza con i principi della religione ebraica in base ai quali non potevano essere riconosciuti al “Padre” nomi propri di alcun genere. Come già visto trattando la terminologia dei Vangeli, nel mondo giudaico il significato autentico dell’espressione "Figlio di Dio" o, come in questo caso, "del Padre", non era certo da individuare nella “discendenza unigenita” da Dio e, conseguentemente, nell’unicità irripetibile, per chi fosse identificato con tale titolo, della coniugazione dell’elemento umano con quello divino. Tale visione, a noi familiare perchè di esclusiva derivazione ellenistica, è lontanissima dall’originale accezione ebraica, volta a riconoscere un'alta levatura iniziatica del personaggio (umano e non divino) identificato e noto in seno alla comunità con il ricorso a tale espressione. Ammesso e per nulla concesso il reale svolgimento dell’improbabile processo pubblico, il popolo interpellato da Pilato avrebbe conosciuto, dunque, l’appellativo del personaggio “assolto” e sarebbe stato in grado di distinguere il Gesù identificato con esso dall’altro. Ma chi furono, in conclusione, i due veri protagonisti della tragica alternativa e cosa nasconde questo dubbio processo simile ad una messinscena? Un avvenimento così oscuro nei significati e improbabile nella dinamica sembra essere stato concepito al precipuo scopo di normalizzare quella dualità messianica sulla quale insistiamo, che nelle pagine dei Vangeli assume un certo spessore soprattutto nell’episodio in questione. Con l’espediente della scelta popolare accompagnata dalla folle e masochistica automaledizione, fu fatto uscire di scena “Gesù Figlio del Padre” che a nostro avviso altri non fu che il messia di Aronne e dinnanzi alla croce, per colpa del popolo ebraico, rimase solo l’altro rabbi, il “Re dei Giudei”, il messia davidico, quel Giovanni al quale nel II secolo fu dato il nome dell’altro, con il risultato grottesco di rappresentare due individui dallo stesso nome opposti nel pretestuoso confronto. L’inconveniente occasionato dai primi falsari, che si limitarono a sostituire “Giovanni” con “Gesù” (lasciandoci fortunatamente traccia del loro “astuto” intervento nell’antica citata versione del passo di Matteo), fu poi superato da altri di seconda generazione attraverso la trasformazione dell’appellativo Bar Abbà nel nome proprio Barabba e la cancellazione di “Gesù”. Non più, dunque, Yeshua e Yeshua bar Abbà, ma Yeshua e Barabba! Da una parte, dunque, Giovanni di Gamala, figlio di Giuda il Galileo, il Re dei Giudei, l’”Unto” ovvero il "CristoV" (Christòs), dall’altra Yeshua ben Panthera, o “Bar Abbà”, il Figlio del Padre ovvero il sacerdote di Aronne: due individui reali ai quali mancò l’avallo della storia per trasformare l’ambizione in realtà e il carisma del titolo in autentico crisma divino e regale. Se è vero che la chiave suggerita è priva del supporto di fondate prove, è altresì vero che essa è forse l’unica a consentire la lettura coerente di un fatto che altrimenti appare illogico e inspiegabile (37).
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