RITORNA ALLA HOME PAGE

  

                        

Yeshua

Ritorna all'ingresso della sezione "la croce di spine"

ritorna all'indice

Dai un giudizio sul libro

ACQUISTA IL LIBRO

 

 
    Spazio Google adsense         
                 
 

Gli estratti pubblicati sono soggetti a Copyright. E' possibile stampare o diffondere gli stessi in internet, purchè non modificati e semprechè espressamente riferiti all'autore.

LA CROCE DI SPINE

Per accedere alle note clicca qui

IL SIMBOLO DELLA CROCE E IL VALORE SALVIFICO DEL MARTIRIO

 

“Morì, fu sepolto e il terzo giorno resuscitò....”: in questa sintesi, recitata coralmente dall’assemblea dei fedeli nelle celebrazioni domenicali, viene enunciato il principio fondamentale della fede cristiana e la verità assoluta della rivelazione. È il cardine della fede comune all’intero e variegato universo delle Chiese cristiane.

L’accettazione del principio distingue il fedele dall’infedele, l’osservante dall’eretico, il cristiano dal resto del mondo. Una “verità” che si riconosce nel simbolo della croce, che da odiato strumento di morte si trasforma in un emblema di venerazione perchè testimone del sacrificio dell’uomo che, vincendo il più ineluttabile degli eventi, riafferma la vita del “Dio risorto” e fornisce così una prova di divinità unica e irripetibile nella storia del mondo.

Nel corso di questo studio sono state evidenziate decine di incongruenze tra storia e Vangeli, realtà e favola: siamo ora di fronte alla proclamazione del più gigantesco assurdo al quale viene riconosciuta la dignità di un evento reale, posto a base della cristianità come certo e non mitologico, concreto e non astratto, letterale e non simbolico. 

È stato già evidenziato, in altra parte, come la radice archetipale del sorprendente evento sia comune ad un’infinità di antichi culti pagani e misterici, soprattutto di origine agreste, nei quali la morte e resurrezione del dio veniva idealmente collegata alla rinascita a nuova vita della natura (70).

Prima di esaminare la dinamica dei fatti, è necessario soffermarsi sulla “ratio”, che la speculazione teologica pone a fondamento della morte e resurrezione di Gesù Cristo.

Al mistero da sempre viene riconosciuto, oltre che un valore probatorio (della divinità di Cristo), una funzione salvifica e redentiva nei confronti dell'umanità intera.

Dio, per riabilitare l’uomo dalla colpa del peccato originale, mandò suo figlio che incarnandosi e morendo per mano degli uomini, strinse con lui una nuova alleanza, a superamento dell’antica macchia.

Perfino la pittura (da quella rinascimentale in poi) ha raccolto il simbolo di questo superamento raffigurando il teschio del primo uomo (Adamo) sotto la croce dell'uomo nuovo (Cristo).

Dio, in altre parole, per riconciliarsi con l’uomo ha avuto bisogno di incarnarsi, morire per mano degli uomini e risorgere.

Risulta lampante l’assurdità della “filosofia salvifica” posta quale base logica del mistero ed è straordinario come tale “assurdità” non venga mai rilevata da alcuno. 

È come se l’anziano capo di una famiglia di “mafia”, per porre fine ad una sanguinosa lotta tra “faide”, volendosi riconciliare con una famiglia avversaria decida di inviare suo figlio a pranzo nella “tana del lupo”.

La famiglia avversaria, nel bel mezzo del pranzo di riconciliazione, decide di accoppare il rampollo e lo restituisce in “orizzontale” al padre.

Ora l’anziano è felice: suo figlio si è umiliato sedendo nella stessa tavola dei suoi nemici e li ha così riabilitati, poi questi gli hanno “fatto la festa” e dunque... ora si che pace è fatta!

L’archetipo della morte e resurrezione a scopo redentivo, a guardarlo in questa semplice chiave, non cela soltanto qualche incongruenza: è un monumento all’illogicità!

Agli uomini è data la possibilità di riabilitarsi riconoscendo Dio in suo figlio ma loro non lo riconoscono e lo crocifiggono: solo per questo, Dio avrebbe dovuto sprofondare l'umanità intera in uno di quei buchi neri che inghiottono le stelle.

Invece riconosce nel fatto (già profetizzato) il suggello di un nuovo patto con l’uomo, al quale riapre le porte del paradiso (perchè è stato bravo e gli ha fatto fuori il figlio) chiuse fin dai tempi del peccato originale!

La spiegazione appaga e il “popolo di Dio”, felice della riabilitazione, “gira” il “testimone” dell’infamità al solo popolo ebraico (ingrato perchè oltretutto era anche il "popolo eletto"), accusandolo di “deicidio” e costringendolo a subire per millenni il castigo dell’eremitaggio perpetuo e delle persecuzioni razziali.

Qui si cela l’effetto subdolo del meccanismo perverso dell’ operazione paolina.

Quanti “piccioni, infatti, coglie la cristianità romana in un “sol colpo”? Molti di più dei canonici “due”! 

 

  • afferma la divinità di Cristo che, in quanto Dio, vince l’invincibile morte;

 

  • consegue la patente di “fede universale”, superando i ristretti limiti del profetismo vetero testamentario di radice giudaica: Cristo si sacrifica per l’umanità alla quale offre un segno (la resurrezione) troppo solenne per restare circoscritto all’ambito messianico/rivendicativo della nazione ebraica (che stinge e sbiadisce per lasciare il posto all’immagine dell’universale popolo di Dio);

 

  • colpevolizza il popolo giudaico e scagiona da ogni colpa la potenza titolare dello scettro del mondo (Roma) alla quale offre inutilmente per secoli la propria alleanza, fino ad essere finalmente premiata da Costantino;

 

  •  legittima la discendenza degli apostoli in luogo di qualsiasi altra possibile (quale ad esempio quella dinastica),   individuando in essi i soli testimoni della vita, morte e resurrezione di Cristo.

 

Interessante, infine, notare che l’archetipo di origine misterica del ciclo “morte e resurrezione” del dio-uomo, non faceva parte né delle attese storiche del popolo ebraico né della profetica veterotestamentaria.

Infatti, come notato dal G. Jossa, “il giudaismo non conosce l’idea che il messia (o il Figlio dell’Uomo) debba soffrire”(71).

Pertanto Matteo, come d’altro canto Marco e Luca, assegnando a Cristo la sofferenza espiatoria del misterioso personaggio denominato “servo di Jahvè” nel quarto canto di Isaia (72), vanno ben oltre la tradizione giudaica, che non prevedeva affatto tale sorte per il messia (73).

La rilettura neotestamentaria di Isaia coglie di sorpresa e addirittura scandalizza il popolo ebraico, il quale non si aspetta in alcun modo che il “Figlio di David” dei profeti e dei Salmi o il “Figlio dell’uomo” di Daniele debba soffrire e morire, essendo invece entrambi esclusivamente “personaggi regali di sovranità e di gloria” (74).

Ecco, dunque, il senso dello “scandalo della croce” al quale si riferisce Paolo: “… ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per gli stranieri pazzia.” (75).

L’oscura “logica” espiatoria e riabilitativa (alla quale siamo assuefatti) che il cristianesimo paolino pone a base della morte e resurrezione di Cristo, ha subìto nei millenni un processo di normalizzazione reso possibile avviare soltanto sradicando i fatti accaduti dalla realtà storica del mondo giudaico.

Tale “logica”, come già esposto, importata dagli antichi culti misterici e totalmente estranea alla tradizione veterotestamentaria, costituisce, dunque, un mero adattamento archetipale forzato sul personaggio di Gesù, sulla sua natura divina e sulla sua vicenda umana, grazie alla sovrapposizione degli avvenimenti (assolutamente umani) occorsi a Giovanni di Gamala, sfortunato attore di un ruolo messianico dall’epilogo tragico.

Se tali avvenimenti non fossero accaduti, per il cristianesimo sarebbe stato necessario “confondere” la memoria storica ricorrendo ad altro espediente. Se, ad esempio, il “Galileo” fosse sfuggito alla cattura, il cristianesimo paolino avrebbe trasformato tale evento in una ascesa al cielo di Gesù, convalidandolo con straordinarie testimonianze e rivestendolo di quella lirica appassionata e di quella profondità mistica intrise degli stessi artificiosi significati ai quali siamo ben abituati.

 

Qualche parola, infine, per analizzare la strana sorte di un simbolo: la croce.

È’ noto quanto, per il comune senso dei romani, fosse indegna la morte per crocifissione.

La “prima cristianità” (nella quale si riconoscevano persone appartenenti alla popolazione romana o a quelle assoggettate) si guardò bene dal ricorrere a raffigurazioni, liturgie o semplici segni che potessero in qualche modo rievocare questo antico simbolo di infamia (la simbologia primitiva faceva ricorso ai pesci, ai cerchi concentrici ecc.).

Proprio per questo motivo, oltre che per quello sopra accennato, non si può negare storicità all’evento della crocifissione.

Infatti, se T. Frake e P. Gandy avessero ragione e se il mito di Gesù di Nazareth non avesse alcun riscontro in personaggi realmente esistiti e fatti storicamente avvenuti (76), per il “Salvatore del Mondo” sarebbe stato scelto un diverso strumento di morte (decapitazione, lapidazione), molto meno disonorevole e più adeguato a suscitare rispetto, decoro e diritto di memoria piuttosto che ignominia e disprezzo. 

Infatti, nei territori dell’impero, morivano crocefissi essenzialmente i ribelli o i più irriducibili criminali .

Di fronte ad un simbolo considerato infame secondo la comune sensibilità, era molto difficile convincere i romani, fervidi sostenitori dell’impero e della legge, della “divinità” di un condannato, per giunta appartenente ad un popolo sottomesso e ribelle,al quale fu inflitta questa pena.

Per i detrattori sarebbe troppo facile (così come è stato) screditare il mito di un uomo condannato ad una tale morte.

La croce, come strumento, ebbe una sua evoluzione nel tempo (77).

Nella sua forma più progredita e nota, consisteva in due assi incrociati (stipes e patibilum), l’uno perpendicolare al terreno e l’altro parallelo, ai quali veniva legato o inchiodato il condannato che restava in piedi.

La morte (lenta) sopraggiungeva a seguito dell'abbandono del peso da parte delle gambe (che si piegavano) e per via del pendere in avanti della testa (che provocava l'occlusione della trachea ed il soffocamento).

Per un senso di pietà si era soliti spezzare le gambe ai condannati, abbreviandone così l'agonia.

I romani la appresero dai Cartaginesi e ne fecero grande uso (nella sola rivolta di Spartaco furono crocifissi seimila ribelli lungo la via Appia).

In Palestina la croce ebbe una straordinaria diffusione, al punto che nella rivolta del censimento vi furono duemila esecuzioni e in alcune fasi della guerra giudaica se ne contarono cinquecento al giorno: ciò fu dovuto soprattutto all'elevato livello di fermento insurrezionale ed al gran numero di rivoltosi presi prigionieri e condannati in occasioni di sommosse.

Per tale motivo, come dedotto da L. Cascioli sulla base di antichi documenti (78), lo stesso patibolo subì delle semplificazioni, divenendo un non meglio descritto "palo", le cui successive varianti ebbero la forma di X o di +.

Sempre secondo Calcioli, l'asse perpendicolare al terreno più lungo di quello ad esso parallelo lo incontriamo per la prima volta nelle immagini cristiane del IV secolo.

Tale convinzione, tuttavia, sembra essere smentita da un'antica incisione muraria dove la croce appare in realtà a forma di "T" ed il crocifisso sembra trovarsi in posizione sopraelevata rispetto al piano del terreno, con un piccolo asse destinato all'appoggio dei piedi.

Su una parete del Pedagogio (Palatino) appare infatti un graffito risalente alla fine del II sec.- inizio del III, nel quale è raffigurato un asino in croce ai piedi della quale si trova un orante. La scritta dice "Alessameno adora Dio".

Si tratta certamente di una burla ideata da qualcuno ai danni di un amico seguace cristiano, allo scopo di schernirne la fede ridicolizzandone il simbolo associabile ad un essere grottesco, spregevole e indegno di qualsiasi seria adorazione, secondo la sensibilità del tempo.

L'idea che i cristiani fossero soliti adorare un asino non è, tuttavia, completamente nuova: le stesse parole di Marco Cornelio Frontone nella sua Orazione contro i Cristiani (pronunciata tra il 162 e il 166 d.c.), non sono che una delle tante conferme di tale strana convinzione, nonchè del comune disprezzo per quel simbolo che acquisterà nei secoli una centralità assoluta nel culto cristiano:

 

"Ho sentito dire che venerano, dopo averla consacrata, una testa d’asino, non saprei per quale futile credenza […] Altri raccontano che venerano e adorano le parti genitali del medesimo celebrante e sacerdote […] E chi ci parla di un uomo punito per un delitto con il sommo supplizio e il legno della croce, che costituiscono le lugubri sostanze della loro liturgia, attribuisce in fondo a quei malfattori rotti ad ogni vizio l’altare che più ad essi conviene […]"

 

Anche l’uso dei chiodi sembra essere confermato da una recente scoperta archeologica.

All’inizio dell’estate del 1968, vennero alla luce quattro tombe scavate nella roccia a Giv’at ha-Mivtar (Ras el-Marasef), immediatamente a nord di Gerusalemme, presso il Monte Scopus, ad ovest della strada per Napluso.

La data delle tombe, rivelata dalle ceramiche presenti nel sito, spazia dal II secolo a.C. al 70 d.C.

Sono stati contati i resti di trentacinque individui (bambini compresi) morti sotto indicibili sofferenze.

Uno di tali individui, il cui nome inciso sull'ossario era Jehohanan, morì crocifisso all'età di 34-38 anni tra il 7 ed il 66 d.c.

L'aspetto che in questa sede è interessante evidenziare, è quello della presenza dei chiodi conficcati all'altezza degli avambracci e nei piedi (con il piede destro sul sinistro).

L'uomo fu crocifisso in una innaturale posizione su una sorta di piano (sedecula), che assicurando un appoggio per le natiche, prolungò di certo l'agonia obbligandolo, peraltro, a tenere le gambe in una terribile posizione rannicchiata.

Forse l'uso dei chiodi non era poi così inconsueto, oppure bisogna ammettere che in presenza di condannati "eccezionali" si fece ricorso a tale supplemento di crudeltà, così come avvenne per lo stesso Gesù dei Vangeli rispetto ai "ladroni" (leggi "zeloti") con lui crocifissi senza chiodi.

Se si fece ricorso solo eccezionalmente a tale "sadismo", quanti condannati "eccezionali" morirono a Gerusalemme tra il 7 ed il 66 d.c. inchiodati alla croce all'età di 34-38 anni?

È poi così azzardato pensare che dietro l’illustre sconosciuto Jehohanan si possa nascondere il crocifisso del Golgota (che sia egli Giovanni il Galileo o, come vedremo, chiunque altri sacrificato al suo posto)?